La concezione del maschile
Lo scorso tre ottobre è uscita su tutte le piattaforme Un uomo, l’ultimo singolo del rapper nayt. Abbiamo tutti notato l’assenza del producer 3D in questo brano, non per questo però risulta meno potente dei progetti precedenti. In questi minuti di musica l’artista si rivolge direttamente agli uomini, sfiorando temi che raramente trovano spazio nel discorso pubblico. Prima di lui l’hanno fatto Rancore, Marracash, Ghemon, Willie Peyote, e fuori dall’Italia Kendrick Lamar, per citarne uno.
L’uomo, nel pensiero collettivo, “è” forte, deciso, imperturbabile. Cose come i sentimenti, la sensibilità, non li tange. nayt non fa altro che esporre ciò che sta dietro questo cliché: gli uomini non parlano e non comunicano il proprio malessere perché non è concesso loro provarne. Il peso sociale che grava sulle spalle maschili — un peso che, permettetemi di dirlo, in larga parte è imposto da altri uomini — rende impossibile esporsi senza essere percepiti come deboli.
Nel suo dialogo con il maschile, nayt cerca di affermare l’individuo in quanto individuo: il mondo può essere oggettivamente simile per molti, ma la percezione resta personale, ed è ciò che fa di un essere umano un individuo.
Da donna, forse non sono la voce più legittimata a commentare questo brano. L’ho ascoltato, metabolizzato, provato a vestire i panni narrati; allo stesso tempo non posso evitare una domanda: se è difficile imparare a diventare uomini senza strumenti, chi insegna alle donne come essere donne?
E aggiungo: quando nayt dice
QUESTA TIPA MI MOSTRA COME PENSARE MALE
NAYT, UN UOMO, 2025
sembra spostare una parte della responsabilità sulla figura femminile — un passaggio di colpe, un gioco della patata bollente. È innegabile che esista un problema di fondo: agli uomini non è concesso essere umani, ma sono gli stessi uomini a non permetterlo. Le fragilità non espresse, i sentimenti non ammessi, diventano — prima o poi — violenza.
Se non ti insegnano a gestire ciò che senti, sarà il mondo a usarlo contro di te. Tutto possiede un manuale tranne l’essere umani: ciò che si omette, ciò che si tace, prima o poi torna. Qui non sono d’accordo con la narrativa “generalista” dell’emotività uguale per tutti. Se agli uomini non viene concesso di sentire, alle donne spesso viene concesso solo quello: piangere, capire, assorbire, reggere. Non è che il problema sia identico: è che è complementare. Due storture che si incastrano.
Agli uomini viene negata la fragilità; alle donne viene prescritto di farsene carico. Questo produce una divisione tossica delle funzioni emotive nella società: chi implode e chi fa da contenitore dell’esplosione altrui. Chi accusa, rinfaccia, punta il dito contro.
La cultura non vieta alle donne l’emotività — la pretende. E poi pretende che venga ridotta. La trasforma in dovere, non in scelta. La sentimentalità femminile non è libertà, è mansione di ruolo. In quanto donne dovremmo capirle certe cose, dai! Non c’è emancipazione nel potersi disperare se al tempo stesso è socialmente atteso che tu sia quella che deve “sentire per tutti”. E quindi? La canzone di nayt che colpe ha? Nessuna. Esattamente nessuna.
La narrazione che porta avanti ha un solo scopo: informare, raccontare, mettere al corrente. Non basta, certo, ma non possiamo aspettarci che sia una canzone a mutare la condizione in cui siamo cresciuti e ci siamo formati tutti. Possiamo semplificare dicendo “gli uomini soffrono in silenzio e le donne soffrono ad alta voce”, ma sarebbe ancora guardare il problema dal lato sbagliato. Il dato non è la differenza: è l’addestramento. Siamo cresciuti tutti — uomini, donne e chiunque stia fuori da queste due categorie — dentro una pedagogia che considera l’emozione un ingombro da delegare a qualcun altro: c’è chi deve negarla, chi deve contenerla, chi deve ripararla. Ma nessuno viene educato a stare nella propria, a farci pace, a conviverci e a vederla come una parte necessaria del proprio io-interiore.
La canzone di nayt mostra un frammento di questo meccanismo: prende un lato del prisma e lo illumina. Sta a noi, ascoltatori, riconoscere che quel frammento non appartiene a un sesso, ma a una condizione più vasta: una cultura che non sa alfabetizzare l’umano. Se non si impara a nominare ciò che si sente, si agisce in maniera irrazionale — contro se stessi e contro gli altri — e lo si trasmette. Lo si rende, da punto interrogativo qual è, un buco nell’ignoto, chiaro che faccia paura. Le omissioni diventano eredità. E finché non si interviene su questa radice, continueremo a discutere di uomini e donne quando in realtà stiamo parlando di esseri umani che non hanno mai imparato a esserlo.
Se solo imparassimo ad incontrarci in un punto di mezzo.
23.10.2025 Alessia Restucci
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