L’io Impiegatizio di Tarducci
Ventitré anni fa, nel 2002, usciva Turbe Giovanili, io avevo due anni e sicuramente non ascoltavo Rap. Anzi, in verità ho iniziato ad ascoltarlo molto tardi, distratta dal rock inglese e dalla musica italiana degli anni sessanta. Non sono il pubblico adatto per quest’album e non c’è alcun motivo per cui ogni mattina, da qualche settimana, mi alzo, metto il CD di Turbe giovanili nel mio Discman, le cuffiette, e inizio la giornata. Eppure è così e non sono sola nella mia ossessione, perché questa pietra miliare del rap ha ricevuto la certificazione come disco di Platino dalla FIMI proprio qualche giorno fa. Vent’anni fa l’album non aveva ricevuto il successo sperato, così come racconta Fabri Fibra in una recente intervista al podcast Tintoria, e adesso è diventato un vero e proprio cult della musica italiana. Perché un album spicca tra gli altri? Sicuramente l’innovazione e l’inaspettato possono spiegare il successo di Mr. Simpatia e di altri album del rapper senigalliese, ma c’è qualcosa in più in queste tracce che ci delinea una storia. Fabrizio Tarducci, in arte Fabri Fibra, è uscito dall’esperienza stimolante ma senza sbocchi di Uomini di Mare, e la musica sta diventando un sogno che deve contendersi il tempo con il lavoro; un lavoro che non c’entra niente con la musica, peraltro. La storia che noi, aspiranti giovani creativi, viviamo ogni giorno. Mi capita spesso quando mi pongono la fatidica domanda: che lavoro fai? Non posso rispondere con una semplice frase, devo puntualizzare, aggiungere perché il futuro per cui sto lavorando è un altro.
VAI LASCIANDO IL NULLA CHE FAI,
NON SO DEL POSTO CHE CERCHI MA SO
DEL POSTO CHE C'HAI
NON RINUNCIAI E MAI RINUNCERÒ
ALLA CONVINZIONE DI QUEL CHE PIÙ IN
LÀ UN GIORNO FARÒ (UN GIORNO FARÒ)
Nel futuro che vorrei, e che voleva il Fibra di Di Fretta, il nostro lavoro è un altro. Cosa stiamo facendo, però, per avvicinarci a questo lavoro ideale? Ben poco, se il tempo basta appena per fare la spesa e ad alimentare i sogni con un bel carico di frustrazione. Tarducci lo descrive con lucidità nel caos di questo mondo che va di fretta, mentre aspetta la grande occasione o l’idea geniale appesantita da un mondo che ci rende macchine efficienti, irrequiete ma facilmente placabili da soddisfazioni narcotiche. Nel frattempo il suo (e il mio) tempo si deforma diventando veloce e irraggiungibile. Avremmo bisogno di rallentare, di guardarci dentro e di essere quegli artisti ottocenteschi che vivono per scrivere. Ma siamo nella modernità e non siamo artisti, ma lavoratori che devono andare avanti senza voltarsi; al massimo possiamo struggerci. Mi ricorda tanto l’io impiegatizio del poeta Giovanni Giudici, che da personaggio letterario, diventa improvvisamente alter ego mio e di Tarducci. Anche lui parlava di questo presente impossibile da vivere ne Le Ore migliori , distrutto dall’attesa di un futuro migliore e dalla consapevolezza di star sprecando le ore della giovinezza che potevano essere impiegate per scrivere storie:
DEI LIBRI CHE PROMETTEVANO
IN CAMBIO DI VIRTÙ FELICITÀ.
COSÌ FINISCONO LE TUE ORE MIGLIORI
Stretta sul treno regionale che mi porterà a lavoro, con gli occhi ancora addormentati mentre studio le poesie Giudici per l’esame di Letteratura Contemporanea, penso che sto sprecando i miei venticinque anni nell’attesa del futuro. Allora faccio una pausa e metto le cuffiette; sul mio Discman Tarducci ricomincia a cantare e chiede al suo ascoltatore se gli è capitato di aver lavorato e di sentirsi sprecato, in questo mondo che non ci aspetta. Anche Fibra aveva venticinque anni quando ha scritto Turbe Giovanili. Certo, io e lui siamo diversi; aveva alle spalle diverse collaborazioni musicali, un talento incredibile e il supporto del padre del Rap Italiano, Giovanni Pellino, in arte Neffa. Rifletto che non è nemmeno simile all’io impiegatizio che Giudici illustra nella sua La Vita in Versi. L’ironia del poeta del boom economico era rassegnata e guardava alla speranza nel futuro come l’ultimo atto di resistenza per conservare l’umanità intaccata dall’omologazione quotidiana del collettivo, una visione estremamente fatalista. Fabrizio Tarducci ha venticinque anni e ha ancora tutto il tempo di sbagliare, sbattere la testa e sperare. Se in Se non dai il meglio ci dice che le storie sono uguali per tutti, di quelle che si vivono tutti i giorni ed è difficile capire cosa è meglio di altri, nell’ultima traccia del disco, Ma che persona, non può fare a meno di rivolgersi al suo alter ego, Fabri Fibra, e riconoscere come anche se le storie sono le stesse e sono le proprie, dalla musica si può solo estrapolare il meglio.
IL MIO DISCO SUONA
ROBA VECCHIA, ROBA NUOVA
CHE RESTA E NON TORNA PIÙ COME QUESTA
IO RITORNO DAL COMA OGNI VOLTA CHE IL MIO DISCO SUONA
ROBA VECCHIA, ROBA NUOVA CHE RESTA E NON TORNA PIÙ COME QUESTA
Nel gruppo di persone compatte, dove le persone-macchina sembrano numeri, insieme, ma senza possibilità di contatto, Fabrizio torna in vita dal coma e riesce a guardarsi intorno. Si vede in quella moltitudine di gente tutta sola, tranne lui, che insieme alla sua persona, il suo alter ego, osserva tutte le persone dormienti e che si rassegnano a vivere aspettando, magari crogiolandosi solo nella speranza; un po’ come Giudici. Ma non Fabrizio Tarducci. Lui non aspetta, lui va di fretta, ma scrive, lui guarda il caos della sua vita e lo scombina ancor di più, ci ride sopra. Scrive diciassette tracce sulle basi recuperate da un vecchio hard disk di Neffa e scrive un manifesto più che per una generazione, è per un’età, la nostra. Turbe Giovanili è diventato disco di Platino dopo ventitré anni e io riconosco in quel Fibra la persona che mi sveglia dal coma.
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